Non pensare alla meditazione come ad una pratica lineare

Le nostre idee su come dovrebbe essere la meditazione sono solo altri pensieri.

Tratto da Buddhist Tricycle – di Ken McLeod, 27 marzo 2020

Un insegnante Zen, parlando con un collega riguardo uno studente disse: “Sono un pò perplesso da questa studente a cui ho detto di portare l’attenzione sul respiro, contando fino a dieci respiri e poi ricominciare da capo”.
Continua a dire che non riesce mai ad andare oltre i cinque respiri senza distrarsi. Appena si accorge di essersi distratto, ricomincia e questo gli fa pensare che stia sbagliando qualcosa, perché non va mai oltre i cinque.
Non capisco perché lo pensi.

Dal punto di vista dello studente, il punto è il non riuscire a praticare come si deve. Pensa: “Metto la mia attenzione sul respiro e inizio a contare, ma non riesco mai ad arrivare a dieci senza prima distrarmi. Non sto praticando bene lo zazen.
Mentre l’insegnante invece pensa: “Direi che sta esercitando correttamente, ogni volta che si accorge di essersi distratto, ricomincia daccapo a contare i respiro.

Questi due punti di vista sono abbastanza frequenti nell’interazione insegnante-studente. In questo caso, lo studente è intento a raggiungere un obiettivo, mentre l’insegnante è interessato alla sua disponibilità a continuare a fare un certo sforzo.
Qui, lo studente sta praticando con l’idea che quando segue il respiro per dieci volte consecutive, avrà sviluppato una certa costanza nella sua meditazione.
È ciò che egli considera un obiettivo da raggiungere.
Ma per l’insegnante questo obiettivo non è importante. Cinque respiri, dieci respiri, ventuno respiri: non importa. Ciò che conta è che lo studente continui a tornare ogni volta che riconosce una distrazione.

Come dovrebbe essere la pratica?

Solitamente siamo portati a pensare che bisogna sviluppare un certo livello di stabilità, un attenzione costante in meditazione, una concentrazione continua.
Ma quando guardo da vicino la mia esperienza, non trovo nessuna di queste qualità.

Soggettivamente, la mia meditazione potrebbe essere considerata un disastro. Le cose saltano fuori inaspettatamente per tutta la durata della meditazione.
I pensieri appaiono e scompaiono, a volte come un branco di elefanti, a volte come formiche, a volte come nebbia.
Le diverse emozioni che appaiono attirano l’attenzione come il canto delle sirene. Un aereo passa sopra di noi, o un’auto  si mette in moto parte, gli irrigatori nel prato si mettono in funzione.
A volte mi sento a mio agio seduto e altre volte no, perché sono consapevole della tensione o dell’agitazione in diverse parti del mio corpo.
Quando uno qualsiasi di questi pensieri, sentimenti o sensazioni mi aggancia, sono in un altro mondo e poi mi rendo conto di essere stato distratto.

Ho rinunciato a cercare di avere un’attenzione costante e stabile o persino una focalizzazione chiara. Quando noto che non sto meditando, torno semplicemente. È tutto.

Quello che trovo nella mia pratica è una capacità in continua evoluzione di essere consapevole dei pensieri, sentimenti e sensazioni come pensieri, sentimenti e sensazioni.
Questa capacità di essere consapevoli è costanza?
No, ma la consapevolezza sembra sempre essere lì quando torno.

Anche se ho trovato un modo per sedermi più o meno alla stessa ora ogni giorno, devo ancora fare lo sforzo. A volte va bene, a volte no, ma non è affatto chiaro cosa significhi buono.
Il più delle volte, sembra che buono significhi che mi sento bene, ma significa che la pratica è buona?
Ho notato che non imparo molto quando mi sento bene, ma imparo molto quando ho difficoltà. Allora che tipo di bene stiamo cercando?

Quando insegnavo, ero costantemente all’erta per le idee negli studenti che li avrebbero fatti inciampare nella loro pratica. Avevo imparato dalla mia stessa ostinazione quanto possano essere problematiche tali idee e quanto sia difficile rimuoverle o lasciarle andare.

Quando abbiamo un’idea di come dovrebbe essere la pratica, troviamo quasi sempre che l’esperienza è diversa dalle nostre aspettative, e quindi presumiamo che stiamo facendo qualcosa di sbagliato. Ci sforziamo di più. Cerchiamo di correggere qualunque errore pensiamo di fare.
Possiamo parlare con gli amici praticanti. Alcuni di loro sembrano avere lo stesso problema, ma non riescono nemmeno a capire cosa stanno facendo di sbagliato.
Potremmo parlare con il nostro insegnante, ma anche lui non capisce il nostro problema o non pensa che sia importante.

Frustrati, andiamo da altri insegnanti. Studiamo vari testi e trattati. Impariamo molti metodi, apprendiamo varie trappole e accumuliamo una serie impressionante di rimedi, ma è tutto inutile. La nostra esperienza ancora non corrisponde alla nostra idea di come dovrebbero essere le cose.

In tutto questo, non ci rendiamo mai conto che stiamo facendo un’enorme supposizione: pensiamo di sapere come dovrebbe essere la pratica.

Non cercare la costanza. Non cercare stabilità.

Per me, la parte più difficile era riconoscere che le mie idee e supposizioni sulla pratica erano semplicemente pensieri: pensieri persistenti, pensieri persuasivi, pensieri autorevoli, ma alla fine solo pensieri. A poco a poco, più per forza di cose che per qualsiasi esercizio di intelligenza, ho imparato a conoscerli come pensieri. E posso riconoscerlo ora, la maggior parte delle volte.

Quello che suggerisco è che impari a porre l’attenzione, sia nell’esperienza del respiro,
nel flusso dell’esperienza, sia nella consapevolezza stessa.
Quindi allenati a tornare sull’attenzione ogni volta che ti rendi conto di esserti perso. E poi fallo ancora e basta.
Poni attenzione e resta lì. Ti distrai, ritorna e resta lì. Ancora e ancora.

Non cercare la costanza. Non cercare stabilità.
Non cercare affatto la concentrazione o alcuna qualità particolare.
Ognuna di queste è una specie di chimera che ti condurrà in un labirinto di confusione.

Nelle parole di Niguma, uno dei progenitori della tradizione tibetana Shangpa Kagyu:

Non pensare al tuo insegnante o alla tua pratica.
Non pensare a ciò che è reale o non reale.
Non pensare a niente.
Non controllare ciò che provi.
Dimora solo su ciò che è.

Non pensare alla meditazione come ad una pratica lineare